Reati "culturalmente orientati" o "culturalmente motivati": la Cassazione torna sulla necessità del bilanciamento tra il diritto a non rinnegare le tradizioni culturali e religiose di provenienza e i beni giuridici lesi con la condotta incriminata

19.07.2018

Nota a Cass. Pen., Sez. IV, 29/01/2018 (ud.) - 02/07/2018 (dep.), n. 29613.

Con l'avvento del fenomeno dei flussi migratori imponenti e della globalizzazione si è, via via, imposta all'attenzione degli operatori del diritto la categoria dei reati c.d. "culturalmente orientati" o "culturalmente motivati": si tratta di quelle fattispecie incriminatrici poste in essere dallo straniero con l'assoluta mancanza di consapevolezza di commettere un fatto previsto dall'ordinamento giuridico italiano come reato ma, per contro, nella consapevolezza di ottemperare ad una consuetudine, prassi o - addirittura - norma imposta dalla tradizione socio-culturale del Paese di provenienza dell'autore.

La giurisprudenza italiana, prendendo atto del "multiculturalismo" dilagante nell'attuale momento storico, si è trovata negli ultimi anni a confrontarsi sovente con ipotesi di questo tipo, pervenendo all'autorevole conclusione secondo la quale "occorre promuovere un approccio esegetico che abbia in considerazione il mutamento del costume e sentire sociale in continuo divenire, di modo che le decisioni si mostrino come il prodotto di una interpretazione contestualizzata in relazione al momento storico, più che una tralatizia ripetizione di concetti (il comune sentire; la pubblica decenza) ritenuti scontati e immutevoli". 

Allo stesso tempo, però, la Suprema Corte ha sempre ribadito - e lo fa anche nella sentenza in commento - che nessun sistema penale potrà mai abdicare, in ragione del rispetto di tradizioni culturali, religiose o sociali del cittadino o dello straniero, alla punizione di fatti che colpiscano o mettano in pericolo beni di maggiore rilevanza (quali i beni giudici tutelati dalle norme penali), che costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione, nella società civile, di consuetudini, prassi, costumi che tali diritti inviolabili pongano in pericolo o danneggino.

Da qui, l'esigenza di un attento bilanciamento tra il diritto, pure inviolabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali, da un lato ed i valori offesi o posti in pericolo dalla sua condotta, dall'altro.

Veniamo, adesso, al caso concretamente posto all'attenzione della Suprema Corte nella sentenza in commento.

I due imputati, genitori della vittima minorenne, erano stati tratti in giudizio per i reati di cui agli artt. 609 bis e 609 ter, ultimo comma, c.p. poiché accusati, il padre di aver sessualmente abusato del fanciullo praticando palpeggiamenti alle parti intime e sesso orale e la madre di non aver osservato l'obbligo giuridico di evitare i gravi abusi perpetrati ai danni del figlio da parte del marito pur essendone a conoscenza (art. 40 cpv c.p.). I giudici del merito avevano assolto i predetti imputati con la formula "il fatto non costituisce reato", adducendo quale motivazione la carenza del dolo richiesto dalle norme incriminatrici contestate anche - e soprattutto - alla luce della tradizione culturale del Paese d'origine degli imputati (c.d. scriminante culturale).

Su tale ultima circostanza, invero, la tesi difensiva - avallata dai giudici di primo grado e d'appello - aveva sostenuto che, nel Paese di provenienza dei genitori (l'Albania), costituiva una tradizione accarezzare il figlio maschio nelle parti intime, come augurio di prosperità e di perpetrazione della specie.

Avverso la sentenza assolutoria de qua ha proposto ricorso per cassazione la Procura Generale presso la Corte d'Appello di Bologna, contestando in toto il costrutto dei giudici del merito.

I Giudici di Piazza Cavour hanno accolto il gravame proposto dal Procuratore Generale e, per conseguenza, annullato il provvedimento impugnato con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna, precisando alcuni concetti di fondamentale importanza nei reati c.d. "culturalmente orientati" o "culturalmente motivati".

Secondo il supremo consesso al fine di valutare l'incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell'agente deve essere attuata, innanzitutto, una valutazione della natura della norma culturale in adesione alla quale il reato è stato commesso (se religiosa o, addirittura, giuridica), nonché il carattere vincolante o meno della stessa (se rispettata in modo omogeneo da tutti i consociati o, piuttosto, desueta anche nel contesto d'origine). Inoltre, assume rilievo cruciale anche il grado di integrazione dello straniero in Italia e il suo grado di perdurante adesione alla cultura d'origine (aspetti che prescindono, semplicisticamente, dal tempo di permanenza dell'immigrato nel nuovo Paese).

Sulla scorta di queste linee direttrici, la Suprema Corte ha escluso la c.d. scriminante culturale nel caso di specie in quanto, in primo luogo, dalle risultanze istruttorie era emerso come la tradizione culturale invocata dagli imputati apparisse, addirittura, in contrasto anche con le prescrizioni del codice penale albanese (att. 100 e ss.) e, per di più, i genitori della vittima fossero da molto tempo residenti in Italia e lavorassero regolarmente; pertanto, erano ben consapevoli dell'illiceità delle loro condotte nel nostro ordinamento giuridico-penale.

Pur volendo appellarsi all'ignoranza della legge penale italiana, la Suprema Corte ha precisato che si tratterebbe, nel caso di specie, di ignoranza inescusabile ed irrilevante, seguendo i canoni evidenziati, in maniera oramai granitica, dalla giurisprudenza costituzionale in materia. 

In ultimo, la Cassazione è tornata, poi, sull'interpretazione della natura sessuale degli atti contestati che, erroneamente, erano stati ritenuti privi di rilevanza penale in quanto posti in essere non per soddisfare la concupiscenza dell'agente ma per esprimere affetto ed orgoglio paterno (conformemente alla presunta tradizione). Gli Ermellini hanno, pertanto, chiarito che "devono essere considerati atti sessuali tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene e che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate esemplificamente dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica. Tra questi vanno ricompresi i toccamenti,  palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo del tutto irrilevante, ai fini della consumazione, che il soggetto abbia o meno conseguito la soddisfazione erotica. Allorchè - prosegue la Corte - le vittime di violenze sessuali siano minori, l'oggetto di tutela risulta vieppiù rafforzato, giacché il delitto di cui all'art. 609 quater c.p. (atti sessuali con minorenne) tutela l'integrità fisio-psichica del minore nella prospettiva di un corretto sviluppo della personalità sessuale attraverso una assoluta intangibilità, nell'ipotesi di minore di anni quattordici (comma prima n. 1), o relativa, con riferimento a specifiche situazioni di parentela o di affidamento del minore stesso (comma primo n. 2) e si configura anche in assenza di pressioni coercitive, atteso che in tali ipotesi si può realizzare una agevolazione del consenso o un impedimento al rifiuto dello stesso".

Per una disamina approfondita della sentenza in commento, è possibile consultarne di seguito il testo integrale.


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